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2412-2010
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Mirko Rossato: “Troppa improvvisazione in questo ciclismo”

Comunicato stampa

Non si può dire che abbia peli sulla lingua, Mirko Rossato. Il tecnico più vincente del ciclismo dilettantistico italiano non è tipo da usare parafrasi e si porta addosso senza patemi la reputazione di burbero dal cuore buono.
Sarà per questo che nel “circuito” delle premiazioni invernali ci si dimentica spesso di Rossato?
“Può essere, ma per me targhe e fotografie contano fino a un certo punto, non uso compiacenze e scambi di favori per ottenerle. I premi che mi interessano me li guadagno di giorno in giorno assieme ai miei corridori e al mio staff. Ciò che la Trevigiani Dynamon Bottoli ha realizzato quest’anno è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo lavorato bene e non c’è miglior gratificazione della stretta di mano di chi ci ha dato fiducia, ad iniziare da Remo Mosole e Angelo Bottoli”.
57 vittorie nel 2010, sei atleti consegnati al professionismo: c’è chi storce il naso…
“Il problema è che molti non hanno ben chiaro come si fa il direttore sportivo. Io lavoro per la squadra dalle 8 di mattina alle 8 di sera, tutti i mesi dell’anno. Ai miei corridori do tutto e da loro pretendo il massimo. Se vinciamo così tanto è perché scegliamo ragazzi di qualità, dedichiamo grande attenzione alla programmazione e alla metodica di allenamento e lavoriamo molto sulla compattezza del gruppo. Abbiamo vinto gare in cui eravamo inferiori, facendo valere la forza del collettivo. E poi c’è la motivazione: bisogna fare in modo che gli atleti non perdano mai la voglia di vincere. Fosse per me lotterei allo spasimo anche per una volata in allenamento. Certo, non si può essere dei buoni motivatori se per primi non si è motivati. Ci vuole tanta passione, e io ce l’ho. Per questo non mi pesa fare questo lavoro e riesco ad ottenere determinati risultati”.
Con i corridori è duro come sembra?
“Io ai ragazzi parlo con molta franchezza, loro sanno che non transigo su certe cose e che quando si fa un progetto bisogna andare fino in fondo. Quando sbagliano mi faccio sentire, ma loro mi conoscono, sanno che lo sto facendo per il loro bene, perché ciò che mi appaga di più è insegnare loro come si fa il ciclismo. Non ho pietà con i lavativi, fanno perdere tempo e risorse sia alla squadra, sia ai loro genitori”.
Molti suoi “ex”, oggi professionisti, non vogliono saperne di recidere il cordone ombelicale…
“Io alla Trevigiani faccio il team manager e il direttore sportivo, ma il mio vero lavoro è quello dell’allenatore. Preparare i ragazzi mi piace, per questo faccio volentieri gli ‘straordinari’ per aiutare anche corridori che non sono più con me. Quando poi fanno il risultato, anche se i meriti se li prendono gli altri, per me è sempre una grande gioia”.
Come giudica l’ambiente del professionismo?
“Continua ad essere un mondo in cui la serietà è una merce rara e la parola data conta poco. Indubbiamente ci sono team manager molto professionali e affidabili, ma non è la regola. Quest’anno un nostro corridore, Stocco, ha firmato un contratto con la Flaminia, poi il team manager Marrone si è tirato indietro. Ora siamo per vie legali. Citracca della Isd aveva preso accordi con Graziato, ma dopo il mondiale non si è più visto. Non si può giocare con i sogni dei ragazzi”.
Già che ci siamo, una battuta anche sui direttori sportivi del professionismo…
“Non voglio essere ripetitivo, ma non mi sembra che il livello tecnico sia altissimo. Anche qui, tolti alcuni ottimi d.s, ci sono molti loro colleghi che fanno i segretari e gli autisti. Alcuni continuano a fare i corridori anche quando salgono in ammiraglia. Non basta aver corso dieci anni fra i professionisti per essere dei buoni direttori sportivi”.
Un pensierino ce l’ha mai fatto?
“Le opportunità ci sono state, ma se devo passare ad una squadra di professionisti per mandare avanti una macchina preferisco stare dove sono. Mi attira piuttosto l’idea di creare un progetto mio per dare una continuità a dei giovani che altrimenti rischiano di perdersi perché non sono seguiti a dovere”.
E se non dovesse riuscirci?
“Mi sono posto un termine: i mondiali in Toscana del 2013. Se a quel punto non sarò riuscito a mettere in piedi una squadra di professionisti come piace a me, credo che lascerò l’ambiente. Fra i dilettanti non riuscirei comunque a realizzare più di quanto avrò già fatto”.
Doping: si fa abbastanza per combatterlo?
“Fra i professionisti credo che sia difficile attuare più controlli di quelli che già si fanno. Ciò non toglie, naturalmente, che ci sia qualcuno che si ostina a non rigare dritto. Fra i dilettanti si potrebbe fare di più, tuttavia non credo che nelle categorie giovanili il fenomeno abbia i contorni di una piaga, come sento dire”.
Che opinione ha della stampa che segue i dilettanti?
“C’è un po’ di tutto: ottimi cronisti, ma anche tanta gente che s’improvvisa. Qui ogni tanto qualcuno si sveglia la mattina e si mette a fare il giornalista, l’addetto stampa o il fotografo. E l’etica professionale va a farsi benedire: se paghi pubblicano, altrimenti ti boicottano. Io ho deciso di non sottostare a questi ricatti. Per fortuna, ripeto, ci sono anche molti operatori onesti e professionali”.
La sicurezza nelle gare non è mai stata così d’attualità…
“Inevitabile, dopo episodi come la morte di Thomas Casarotto. Io credo che fra gli organizzatori non ci sia abbastanza informazione. Nei percorsi in cui nascono i distacchi spesso si rischia troppo. Anche in questo caso la parola chiave è professionalità”.
Come giudica il lavoro del c.t. Amadori?
“Un rilievo sul metodo mi permetto di farglielo. A un anno da mondiale in Danimarca ho letto interviste in cui già parlava di questo o quel corridore da selezionare. Non credo sia corretto nei confronti di tutti gli atleti che vorrebbero lottare per una maglia azzurra, né delle loro squadre. Tornando al mondiale in Australia, chiamare tre atleti su cinque di una sola squadra, la Zalf, mi è sembrato eccessivo. In un percorso come quello lasciare a casa corridori come Trentin e Aldegheri è stato un grosso errore”.

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